Una bella intervista di Simone Moro sulla montagna adrenalinica

Una bella intervista di Simone Moro sulla montagna adrenalinica

Gli appassionati della montagna lo sanno bene. Per godersela a pieno ci sono due modi. O la conosci molto bene e sai come muoverti senza farti sopraffare dalla natura selvaggia oppure ti affidi all’esperienza comprovata di qualcun altro. E’ la ragione per cui è sempre consigliabile affidarsi a guide turistiche esperte durante le escursioni. E’ anche la ragione per cui ci piace riportare ciclicamente le migliori chiacchierate dei grandi delle montagne. Dalle loro parole potrai sempre imparare lezioni importanti che un giorno potrebbero salvarti la pelle. Ecco l’intervista di Simone Moro realizzata da Style Magazine in modo magistrale.

Prima di entrare nel vivo dell’intervista di Simone Moro, scopriamo qualcos ain più su quest’eroe dell’alta quota.

Chi è Simone Moro

Alpinista, pilota di elicotteri, esploratore, è uno dei nomi di punta della montagna internazionale. Nasce a Bergamo come Walter Bonatti con una passione che l’ha portato a raggiungere questi obiettivi:

  • ha scalato otto dei 14 otto mila esistenti al mondo;
  • ha ricevuto la Medaglia al valore civile per il salvataggio di Tom Moores sul Lhotse;
  • ha dato il suo contributo alla scrittura della storia dell’alpinismo invernale. 

I numeri di Simone Moro dicono che in dodici anni ha saputo realizzare quattro «prime»:

  1. Shisha Pangma (8.027 metri);
  2. Makalu (8.463);
  3. Gasherbrum II (8.035);
  4. Nanga Parbat (8.126).

Prima di lui nessuno le aveva scalate nei mesi freddi. Gli resta solo il K2. Ecco l’intervista di Simone Moro di Style Magazine in cui si capisce che uomo c’è dietro la leggenda.

Simone Moro, com’è cambiata la montagna negli ultimi 30 anni?

La gente che la frequenta è aumentata in maniera esponenziale. Si è persa però la consapevolezza di cosa sia, la montagna, e si tenta di esportare anche lì lo stile di vita della città: vogliamo il parco giochi in quota, il gelato nel rifugio… La montagna non è una cosa programmabile, incanalabile in una serie di norme a misura d’uomo. Siamo noi che ci dobbiamo adattare, non viceversa.

L’alpinismo è uno sport o no?

Se per sport intendiamo un’attività regolata in tutto, misurabile e replicabile, allora la risposta è no. Nell’alpinismo non ci sono un arbitro, una federazione, delle gare, la diretta tv; non è nemmeno replicabile perché la montagna cambia da un giorno all’altro. D’altra parte la Gazzetta ha sempre raccontato l’alpinismo e l’ha incluso nel Festival dello Sport: una scelta coraggiosa.

Si può dire che lei abbia reinventato l’alpinismo invernale?

Di certo ho riproposto una disciplina che, dopo i polacchi negli anni Ottanta, sembrava già morta e sepolta, quando invece c’era ancora molto da conquistare. Nessuno aveva più voglia di imbarcarsi in un’avventura costosa e impegnativa avendo solo il 15 per cento di possibilità di farcela. Io ho tenuto duro e nel 2005, quando ho completato la prima ascensione invernale dello Shisha Pangma a 17 anni dall’ultima impresa del genere, ho dimostrato che quella strada si poteva ancora percorrere. Penso di aver rimesso in moto, come ha detto anche Messner, un alpinismo che non esisteva più.

Scalate, voli in elicottero, paracadutismo: riesce a vivere senza adrenalina?

Per me è fondamentale l’azione, non l’adrenalina. Però sono anche uno che ha saputo stare tre mesi in una tenda ad aspettare le condizioni giuste per la scalata. Il mio punto di forza è saper attendere più degli altri, e così, quando arriva il bel tempo, ci sono solo io.

Fra le sue imprese, di quale va più fiero?

Le quattro prime invernali: un record che nessuno potrà battere. Sono le mie pagine di storia dell’alpinismo.

Ce ne sarà una più dura delle altre…

Il Nanga Parbat è stata la più estenuante. È la montagna più grande del pianeta: il dislivello da affrontare, dalla base alla vetta, è il doppio di quello dell’Everest dal versante cinese. Alla «montagna assassina» ho dedicato un anno della mia vita e quattro spedizioni, di cui una estiva. La salita al Makalu, invece, è stata l’invernale più leggera della storia: eravamo in due, senza ossigeno e senza sherpa, solo con un cuoco al campo base. Sembravamo due sbandati e invece siamo arrivati in cima perché avevamo il fuoco dentro. Mentre il Gasherbrum è stato il primo otto mila invernale nel Karakorum, dopo 26 anni di tentativi.

Guarda anche un’intervista di Simone Moro in video:

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