Non tutti gli appassionati di montagna sono uguali. Non si tratta di una scala di valori ma di un cumulo di esperienza che ad alta quota fa la differenza. Siccome per noi la sicurezza è un valore primario, riteniamo opportuno riportare con costanza le interviste di chi le escursioni le vive più da vicino. Una testimonianza giusta, a volte, può salvare la vita. E così non potevamo non ripubblicare la chiacchierata che Paolo Cognetti ha fatto su “La chiave di Sophia“.
Buona lettura.
Per godervi a pieno l’intervista di Paolo Cognetti è bene capire chi è.
Chi è Paolo Cognetti
E’ uno scrittore che si è aggiudicato il Premio Strega 2017 con il suo romanzo “Le otto montagne”. La storia, che la montagna come sfondo e filo conduttore, narra di un’amicizia tra due ragazzi, Pietro e Bruno, che si snoda nel corso di anni. Secondo la scheda della casa editrice:
Pietro è un ragazzino di città, che ogni estate viene portato dai suoi genitori a Grana, paesino valdostano ai piedi del monte Grenon. Qui egli incontra Bruno, pastore e montanaro, destinato a diventare per lui un amico speciale – quello della vita.
Nato a Milano, vive in una baita a duemila metri e da là scrive le sue cose.
In occasione del festival letterario Pordenonelegge, durante la conferenza tenuta con Enrico Brizzi e dal titolo “Camminare, scalare, vivere”, ha rilasciato queste dichiarazioni a “La chiave di Sophia”.
Lei dedica Le otto montagne a un amico che l’ha ispirata, guidandola «dove non c’è il sentiero»: è grazie a questo amico che è nato il personaggio di Bruno? Che rapporto ha questa amicizia reale con quella letteraria?
L’amicizia reale ha ispirato quella del romanzo; questo libro non è un’autobiografia però tutto quello che c’è dentro ha un certo grado di verità – come succede sempre nella narrativa. Sono veri i personaggi, sono veri i luoghi, sono vere le relazioni. Scrivendo un romanzo succede che la vita diventa qualcosa di “sognato”, si discosta dalla realtà per diventare qualcos’altro. Inoltre, vari aspetti di alcune mie amicizie reali confluiscono nel personaggio di Bruno.
La montagna è un ambiente puro, schietto, elimina il superfluo e va all’essenziale. Secondo lei, quanto influisce l’ambiente montano sui rapporti umani? Parlo di rapporti familiari (penso ad esempio a Gianni, il padre di Pietro ne Le otto montagne) ma anche sentimentali e d’amicizia (mi viene in mente Lara, che si lega a Bruno, alla quale l’essenzialità sembrava non bastare).
Dipende da come uno sceglie di vivere in montagna. È anche possibile vivere in montagna così come in città. Non vorrei descrivere la montagna come un mondo in cui tutti vivono in maniera diversa e più pura. È possibile condurre un’esistenza da cittadini in un paese montano provvisto di tutti gli agi, di tutto il superfluo: mezzi di comunicazione e di intrattenimento, auto, televisione, computer e via dicendo. Ci sono invece alcune persone che vivono la montagna come luogo più semplice, più autentico, ed essi stessi si spogliano di diverse cose. Io ho veramente pochissime cose su (in montagna, nella mia baita, N.d.R.) e faccio una vita il più possibile semplice, e questo in effetti entra nei rapporti, che diventano anch’essi spogliati di tante sovrastrutture o canali di comunicazione che abbiamo oggi a disposizione. Le amicizie si fondano sullo stare insieme, sul camminare, sul lavorare e poco altro. Mi sembra in questo modo di riuscire a creare rapporti più schietti e più profondi al tempo stesso. Per quanto riguarda i rapporti familiari, quello che è successo a Pietro e Gianni è ciò che è accaduto a me: questo padre in città non c’è, perché dedica la parte migliore di sé a quello che fa fuori di casa, al lavoro. Diventa un padre reale col quale è possibile parlare e avere una relazione solo in montagna. Nel mio romanzo accade questo, ma io non ho tanta esperienza di famiglia, non me la sono costruita, mi piacciono di più i rapporti di amicizia piuttosto che quelli familiari.
Sia ne Il ragazzo selvatico che ne Le otto montagne c’è un paesaggio alpino che è selvaggio ma non completamente: lei scrive che sulle Alpi c’è una lunga storia di presenza umana che però oggi vive un’epoca dell’abbandono. Anche a Grana c’è «assenza di decoro, disprezzo per le cose, gusto nel maltrattarle e lasciarle andare in malora». C’è per lei un fascino particolare nell’abbandono del paesaggio alpino che rimanda al “ricordo come rifugio”, la frase che scrive Gianni in un libro degli ospiti?
Sì, trovo un fascino in questo. Noi probabilmente non sappiamo nemmeno che cosa sia un paesaggio davvero selvaggio: sulle Alpi, ovunque andiamo, a guardar bene troviamo dappertutto segni della presenza umana, del lavoro. Fin da piccolo mi sono abituato a vivere la montagna come un luogo abbandonato, pieno di ruderi, dove qualcosa che c’era prima, ora non c’è più, e questo è romanticamente molto struggente. Mi riferisco proprio alla poetica romantica dell’abbandono. Le Alpi io le collego a questo, cosa che non mi succede andando in Himalaya, come racconta Pietro ne Le otto montagne: lì non c’è questa sensazione di abbandono e non percepirla cambia molto, perché l’ambiente montano cambia decisamente carattere.
Lei trova che ultimamente la montagna sia una meta turistica gettonata per moda o perché molti si ritrovano a vivere una certa inquietudine, magari figlia del nostro tempo o del modo in cui si vive, e quindi hanno bisogno di scappare?
Sì, penso che sia così (cioè che sia vera la seconda, N.d.R.). Però vorrei dire che la montagna è una meta molto meno gettonata, oggi, rispetto ad anni fa. Ci sono infatti un sacco di case vuote, è un dato di fatto. Credo che la montagna andasse molto più di moda negli anni ‘60 o ‘70. In questo periodo mi parlano spesso di questa presunta “invasione della montagna”, ma a me viene da rispondere che io quest’invasione non l’ho vista. Abitandoci, non vedo questa “moda” della montagna, o se c’è, semmai, dura pochissimo, forse un paio di settimane in agosto. Penso che a settembre in montagna non ci sia già più nessuno.
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